Dante l'ha citato nel VI canto del Purgatorio, Boccaccio l'ha fatto protagonista della II novella del X giorno del Decamerone, Pascoli gli ha dedicato una delle sue poesie giovanili, Bettino Craxi usava il suo nome come pseudonimo, ma chi è davvero Ghino di Tacco?
Di lui tanto si è detto e scritto, ma sono molte le cose che non sappiamo con certezza, neanche dove e quando esattamente sia nato e sia morto.
Qui abbiamo un ritratto - talora un autoritratto - di Ghino di Tacco, frutto di approfondite ricerche, spesso infruttuose o con risultati discordanti (molte notizie sono incerte, poco documentate e spesso in conflitto tra loro).
Ben contestualizzato nel suo tempo, a cavallo tra il XIII secolo e l'inizio del XIV, nella sua terra - la Toscana centro-meridionale -, l'autrice ci presenta un uomo pieno di vita, di rabbia e di odio, ma anche di voglia di riscatto e di giustizia.
Di lui tanto si è detto e scritto, ma sono molte le cose che non sappiamo con certezza, neanche dove e quando esattamente sia nato e sia morto.
Qui abbiamo un ritratto - talora un autoritratto - di Ghino di Tacco, frutto di approfondite ricerche, spesso infruttuose o con risultati discordanti (molte notizie sono incerte, poco documentate e spesso in conflitto tra loro).
Ben contestualizzato nel suo tempo, a cavallo tra il XIII secolo e l'inizio del XIV, nella sua terra - la Toscana centro-meridionale -, l'autrice ci presenta un uomo pieno di vita, di rabbia e di odio, ma anche di voglia di riscatto e di giustizia.
Estratto
Mia madre stringeva la mia mano e sentivo il calore della sua fluirmi dentro, penetrarmi nel sangue. Per un momento abbassai gli occhi e guardai i miei piedi scalzi, coperti di polvere rossa. Era terra, la mia terra, così diversa da ogni altra. Così rossa da confondersi col rosso del sole al tramonto, rossa perché imbevuta di sangue di uomini e animali, rossa perché illuminata dalle fiamme delle torce.
Erano stati imprigionati e torturati per mesi e avevo udito le loro urla, visto la loro sofferenza, le lacrime, il petto ferito, le braccia stirate.
Urlando avevano maledetto Dio, il papa, i carcerieri e tutti gli uomini. Avevano maledetto anche la vita, la madre che li aveva partoriti, il seno che li aveva allattati e i figli che erano nati dai loro lombi. Avevano maledetto me e mio fratello, che gli saremmo sopravvissuti.
Mi ero tappato le orecchie per non sentire e avevo smesso di ascoltare, ribellandomi a una condanna che non meritavo. Orfano e maledetto dal mio stesso padre.
Tenevo stretta la mano di mia madre e di mio fratello per dar loro coraggio, un coraggio che non avevo.
Adesso li giustiziavano.
Giustizia! Era forse quella la giustizia giusta?
E da quale Autorità veniva?
La gente intorno urlava, in preda al febbricitante desiderio di veder morire. La crudeltà è contagiosa, passa da uno all’altro, eccita le membra e le fa muovere scomposte. Il cuore batte solerte e la vista del dolore altrui muove al riso. Riso di soddisfazione. È la sete di violenza che cresce, continua, senza posa e presto chiederà altre vite. Lo sento e mi si gela il cuore.
Hanno acceso le torce per prolungare lo spettacolo. Tutti devono vedere, per poter ricordare che Siena è potente, padrona e punisce chi non obbedisce ai suoi ordini.
Le torce spandono odore di resina e il vento lo porta. Per un poco è silenzio nella piazza, e pace. PACE! A quale prezzo?!?
Mio padre è morto, mio zio è morto.
Di loro rimane la sagoma scura che dondola leggermente, sospinta dallo spregio degli uomini d’armi più che dalla brezza.
Il sacrificio è compiuto, l’ingiusta giustizia è fatta.
Inutile e crudele una mano vile avvicina una torcia ai loro corpi. Gli stracci si incendiano e le fiamme si alzano al punto da avvolgerli e nasconderli. Mio padre e mio zio sono dentro quelle fiamme, fantocci irriconoscibili che si muovono scompostamente; i loro corpi legati, appesi per il collo, danzano la danza della morte. Come i fantocci di paglia costruiti nei campi per spaventare gli uccelli e che, dopo la raccolta del grano, vengono incendiati, perché non servono più.
L’ultima onta, perché non avessimo un corpo su cui piangere, un volto da carezzare.
Il vento disperde l’odore di carne bruciata, che evoca immagini liete, di animali da gustare, di stomaci pieni, di serate festanti.
Era stato così per anni. L’ultimo giorno d’estate, la grande festa di ringraziamento a Dio per il raccolto abbondante, per i granai pieni e le greggi numerose di agnelli e capretti.
Avevo avuto gli occhi pieni di lacrime ad offuscarmi la vista, poi il calore li aveva asciugati e adesso bruciavano. Mia madre invece piangeva singhiozzando e le sue lacrime cadevano, come fossero le gocce di un temporale estivo, nella terra rossa. Erano nere, cariche di fuliggine e di dolore perché, lo avevo imparato, il dolore e la morte, se non c’è speranza, sono neri.
La speranza è luce.
L’odio è buio.
L’amore è luce.
Ero un ragazzo, poco più di un bambino, mia madre mi strinse più forte la mano fra le sue e mi attrasse verso il suo petto, ma rifiutai il suo abbraccio. Non volevo il suo amore, desideravo che l’odio crescesse in me. Volevo essere forte per la vendetta.
L’amore mi avrebbe reso debole. Lei mi guardò e comprese, o forse furono le sue mani a comprendere quanto avveniva dentro di me. I messaggi fluivano attraverso la mia pelle alla sua pelle.
Non mi aveva forse nutrito nel suo ventre? Non era forse dal suo corpo che aveva preso forma il mio? Ossa, muscoli, carne e sangue erano stati suoi ed erano diventati miei.
“Vendica tuo padre!” dissero le sue mani alle mie.
“Vendica tuo zio!” dissero i suoi occhi accecati dal fumo.
Guardai di nuovo i miei piedi coperti di terra, che il crepuscolo e lo spegnersi del rogo avevano reso nera. Non li distinguevo, ma li sentivo muoversi, intorpiditi dalla fatica e dalla tensione. Pian piano, con dolcezza ma fermezza, liberai le mie mani dalla stretta delle sue e mi allontanai. Non avevo bisogno di rispondere.
Di loro rimane la sagoma scura che dondola leggermente, sospinta dallo spregio degli uomini d’armi più che dalla brezza.
Il sacrificio è compiuto, l’ingiusta giustizia è fatta.
Inutile e crudele una mano vile avvicina una torcia ai loro corpi. Gli stracci si incendiano e le fiamme si alzano al punto da avvolgerli e nasconderli. Mio padre e mio zio sono dentro quelle fiamme, fantocci irriconoscibili che si muovono scompostamente; i loro corpi legati, appesi per il collo, danzano la danza della morte. Come i fantocci di paglia costruiti nei campi per spaventare gli uccelli e che, dopo la raccolta del grano, vengono incendiati, perché non servono più.
L’ultima onta, perché non avessimo un corpo su cui piangere, un volto da carezzare.
Il vento disperde l’odore di carne bruciata, che evoca immagini liete, di animali da gustare, di stomaci pieni, di serate festanti.
Era stato così per anni. L’ultimo giorno d’estate, la grande festa di ringraziamento a Dio per il raccolto abbondante, per i granai pieni e le greggi numerose di agnelli e capretti.
Avevo avuto gli occhi pieni di lacrime ad offuscarmi la vista, poi il calore li aveva asciugati e adesso bruciavano. Mia madre invece piangeva singhiozzando e le sue lacrime cadevano, come fossero le gocce di un temporale estivo, nella terra rossa. Erano nere, cariche di fuliggine e di dolore perché, lo avevo imparato, il dolore e la morte, se non c’è speranza, sono neri.
La speranza è luce.
L’odio è buio.
L’amore è luce.
Ero un ragazzo, poco più di un bambino, mia madre mi strinse più forte la mano fra le sue e mi attrasse verso il suo petto, ma rifiutai il suo abbraccio. Non volevo il suo amore, desideravo che l’odio crescesse in me. Volevo essere forte per la vendetta.
L’amore mi avrebbe reso debole. Lei mi guardò e comprese, o forse furono le sue mani a comprendere quanto avveniva dentro di me. I messaggi fluivano attraverso la mia pelle alla sua pelle.
Non mi aveva forse nutrito nel suo ventre? Non era forse dal suo corpo che aveva preso forma il mio? Ossa, muscoli, carne e sangue erano stati suoi ed erano diventati miei.
“Vendica tuo padre!” dissero le sue mani alle mie.
“Vendica tuo zio!” dissero i suoi occhi accecati dal fumo.
Guardai di nuovo i miei piedi coperti di terra, che il crepuscolo e lo spegnersi del rogo avevano reso nera. Non li distinguevo, ma li sentivo muoversi, intorpiditi dalla fatica e dalla tensione. Pian piano, con dolcezza ma fermezza, liberai le mie mani dalla stretta delle sue e mi allontanai. Non avevo bisogno di rispondere.
(il romanzo continua...)


