Ispirato alla vera vita di una donna ebrea di Roma, il romanzo si svolge tra il 1938 e il 1955, celebrando l’impegno della protagonista nel trovare un ruolo che la società sembra non volerle riconoscere.
Esclusa dall’insegnamento nel 1938, fuggita negli Stati Uniti d’America con un visto da rifugiato politico, la protagonista si scontra con la cultura del nuovo posto, rivelando come certi eventi siano legati anche al bagaglio culturale che uno porta dentro di sé, mai così chiaro e pieno di sfaccettature. Il suo impegno nel riconoscere nell’altro una persona, al di là di preconcetti, superstizioni, credenze e pregiudizi, la rende una figura capace di grandi imprese anche precorrendo i propri tempi.
Questo è il primo volume di una collana dedicata alla celebrazione di tutte quelle persone che, con la loro visione, il loro impegno, le loro spiccate capacità, hanno dimostrato che una convivenza pacifica ed efficace è sempre possibile, specialmente quando si parla di diritti alla persona.
Estratto

Se mi sforzo, posso ancora sentire l’odore della colla, quel liquido vischioso che gocciolava sul lastricato ad ogni immersione del pennello, lurido complice di tanta carta stampata.
E pensare che a scuola, appena terminata quella che veniva chiamata la Grande Guerra, mi piaceva, quando la usavo per attaccare le foglie nell’erbario, facendo attenzione che non si sbriciolassero. Il segreto era raccogliere le migliori, non accartocciate e preferibilmente pulite.
Per trovarle ci spingevamo, con i fratelli maggiori, sopra a Monte Mario; poi, trionfalmente, tornavamo a casa e sul tavolo di legno della cucina le distendevamo, commentandone la foggia ma, soprattutto, la loro originalità.
La nostra colla era bianca, tanto solida che occorreva usare un pennellino per tirarla ed evitare che formasse grumi sulla carta. Quella che gli attacchini spandevano generosamente sui muri, sui pali, sulle saracinesche chiuse, invece, imbrattava senza pietà ogni superficie perchè annunci e manifesti fossero ben visibili, per quanto maneggiati da forze lavoro incuranti di rispettare qualunque proprietà e un minimo senso estetico che sarebbe stato invece dovuto.
L’obiettivo politico era che si doveva leggere quanto era stampato sopra. Tacere, poi, sul contenuto e non fare nient’altro.
Non dico che noi ragazzi, in qualche modo, non ci fossimo abituati a quelle comparse che apparivano all’improvviso, vociando per darsi un tono - nemmeno fossero stati ambasciatori angelici, ma dalle divise scure.
Il clima, in quegli anni, era come sospeso per tutti, eravamo ormai pronti alle novità, sapendo che non erano mai sinonimo di piacevolezza. Si viveva come lepri, con le orecchie dritte, sempre all’erta, fiutando l’aria, pronti a nascondersi o a diventare invisibili.
Nonostante tutto, i più piccoli non rinunciavano a giocare per strada, con quel che avevano: una palla, due legnetti, una corda con cui saltare; e, poi, c’eravamo noi, già più che ventenni, che non volevamo rinunciare ancora a quello stato di gioventù e alle speranze ad esso legate.
Ero la penultima di cinque fratelli: tre maschi, due maggiori di me, Daniele e Davide, uno più piccolo, Enrico. C’era poi lei, Anna, la maggiore, con la quale avevo tredici anni di differenza.
Gli sguardi dei miei genitori, quando noi due discutevamo animatamente di qualcosa, avevano un che di rassegnato e, allo stesso tempo, pregno di ammirazione. Intuivo i loro sacrifici, ma anche la fierezza per averci messo al mondo e inseriti in una società che avrebbe dovuto - s’illudevano - rispettarci.
Quando nasci non hai etichetta, solo il tuo aspetto: cambia il colore della pelle, il taglio degli occhi, la forma del naso, la consistenza di quei quattro peli che spuntano - non a tutti, a dire il vero - sulla testa. Piangi e ti dimeni, facendo di quel tuo vagito l’unica forma di comunicazione con chi troverai fuori dal ventre di chi ti ha partorito.
Lo si fa tutti, nello stesso identico modo; eppure, è parola, la chiave di svolta.
È la parola che ci differenzia.
Mia madre, insegnante, non aveva avuto bisogno di insistere perché, dopo il ginnasio e il liceo, m’iscrivessi all’università. Sembravo, già da ragazzina, modellata per quella facoltà di lettere.
Mi ci impegnai, senza fatica, solo per non disattendere le aspettative dei miei genitori, che ritenevano l’istruzione importante quanto la farina di grano integrale con cui facevamo il pane azzimo.
Eravamo ebrei. Parola che, identificandoci, fece la differenza, nostro malgrado, nelle nostre esistenze.
Eravamo stati condannati a una diversità marchiante per un perverso gioco del destino, che, forse, solo in un’auspicata rinascita, avremmo potuto riscattare, recuperando quella dignità e pacificazione che, adesso, ci era negata con forza, in questa vita.


(il romanzo continua...)


ISBN 9791255120568
dim. 18 cm x 13 cm
pag. 176

€ 14,00